domenica 11 novembre 2007

Beppe e Sara


Roma, 10 novembre 2007. Ecco il testo del mio "intervento-domanda" prima della ministra Melandri. Oltre a me (Giovani e partecipazione politica) sono intervenuti a stuzzicare il ministro: Paola (Giovani e futuro) e Valentina, per telefono (Giovani e mondo del lavoro).

Sara ha 23 anni, studia economia e fa parte di due associazioni; fa volontariato nella periferia della sua città. Ha partecipato attivamente a molte manifestazioni per la pace e per i diritti, è stata a Genova nel 2001. Quando le hanno chiesto di “partecipare” alla “giovanile” di un partito ha risposto che gli spazi di speranza per la sua città e per la sua terra oggi stanno altrove.
Beppe ha 23 anni, studia ingegneria e lavora in un call center. Il suo tempo libero è per lo svago, la sera è fatta per i locali più “in”, e veste solo di tendenza. Quando gli hanno chiesto di “partecipare” a una iniziativa di un partito politico ha risposto che i politici “fanno solo promesse che non mantengono” e “curano solo i propri interessi”.

La partecipazione politica dei giovani oggi ha diversi volti. C'è il volto del “silenzio” di Beppe, e quello della “responsabilità” di Sara. Tutti sotto l'unico ombrello del “disincanto”. Il potere politico è riconosciuto come operante, e le sue azioni si sa che hanno ripercussioni sulla nostra vita e sui nostri desideri futuri (e ci chiediamo: quando ci verrà restituito il diritto a un “progetto”?).
Il potere politico, in quanto relazione asimmetrica, oggi è riconosciuto. Non gli si chiede di scomparire, e anche la cosiddetta “anti-politica” fa i conti con esso e chiede e grida che una certa classe politica si “faccia da parte”. Farsi da parte, per lasciare quella parte libera. Quei movimenti, a cui tanto è vicina Sara, fanno i conti con esso, e al potere politico chiedono responsabilità. Al potere (politico, economico, finanziario) si chiede si essere visibile, perché un potere nascosto (occulto) non è responsabile. Così come un potere che non si lascia comprendere, sia per il vocabolario che utilizza sia per le dinamiche che vive, non è un potere responsabile, perché nasconde e occulta i suoi “codici” di funzionamento. Lo stesso vale per una politica “distante dalla gente”, essa non è responsabile perché con essa non possiamo misurarci. Sara sceglie così dire la propria in uno spazio pubblico, in una piazza o in un quartiere periferico con la testimonianza e il suo tempo.
C'è poi il silenzio di Beppe. Che è la scelta di tanti. Attenzione, non confondiamo il silenzio con il rifiuto. Se Beppe fosse un ragazzo che vive in Calabria, saprebbe bene che rivolgendosi al tale assessore (regionale se possibile) potrà ottenere quel diritto (un contratto di lavoro di sei mesi, rinnovabile casomai) che al Sud ha ormai preso il nome di “favore”. Beppe così ha riconosciuto il potere. Non è indifferente, tutt'altro. Sceglie il silenzio: la provvisorietà del suo lavoro, dei suoi interessi e delle sue emozioni non è ricomposta, è frammentata. Il motto “cosi fanno tutti”, il “pubblico silenzio” di Beppe, è un'altra faccia dello stesso “disincanto” che porta Sara a manifestare in piazza. In quel silenzio ci sono domande mute, e come tutte le domande hanno una loro dignità, anche quel silenzio ha una sua dignità.
Sara e Beppe, stanno sotto lo stesso ombrello del disincanto, chiedono alla politica responsabilità, ovvero di uscire allo scoperto. E stufi prendono un telecomando e spengono la TV dove è in onda “Il treno dei desideri”. Ridate a Sara e Beppe il diritto a un progetto, e non un “treno dei desideri”. Restituito questo diritto a un progetto, Sara e Beppe non staranno più sotto un ombrello. Ma insieme vi darete appuntamento sotto uno stesso portico per discutere e disegnare insieme dei motivi nuovi per stare in una stessa società, sotto lo stesso portico.

Piccola nota...
Nel pensare questo intervento ho fatto riferimento a:
La mia esperienza
A. Melucci, L'invenzione del presente, Il Mulino 1992
Bontempi M., Pocaterra R., I figli del disincanto. Giovani e partecipazione politica in Europa, Mondadori Bruno 2007
Albert O. Hirschman, Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States, Harvard University Press, 1970
F. Vaccari, Portici, AVE 2007

lunedì 5 novembre 2007

senza parole



Non voglio scrivere nulla di mio sulla giornata di ieri (Festa diocesana dei giovanissimi).
E' enorme la gratitudine che porto dentro.
Un "Grazie a tutti" lo sento quasi riduttivo.
Grazie a ciascuno va un po' meglio, ma sarebbe solo un piccolo anticipo della gratitudine che porto dentro.
Le cose che seguono le dedico a chi condivide con me il tempo della semina e dell'impegno, della salita e della speranza.
Per il resto, va bene così...senza parole.

Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare». (Luca 17, 10)

Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode.
Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno. (Salmo 127)

La fatica di tirare la carretta

Nella nostra attività, abbiamo bisogno di un risultato concreto, almeno parziale, per avere la forza di andare avanti, altrimenti non dico al primo insuccesso, ma al primo attendere prolungato del successo, ci scoraggiamo, diciamo che tutto va male, che non vale la pena, che bisogna cercare formule nuove. In sostanza non abbiamo pazienza. E proprio per questo la nostra azione è sterile e spesso inconcludente: noi non lavoriamo per un piano a largo respiro come è quello della Provvidenza che ha come metro di paragone per i suoi tronfi l’eternità: noi lavoriamo per il successo di oggi, vogliamo vedere il futuro del nostro lavoro, vogliamo essere insieme coloro che seminano e coloro che mietono, senza far bene quindi né una cosa né l’altra.

Non sappiamo più fare, cioè, le piccole cose, il lavoro seccante, quotidiano, nascosto, così poco eroico e così monotono anche. E così succede che noi facciamo, ogni tanto, quando un’idea ci entusiasma, quando un programma ci si rivela in tutta la sua attuale bellezza, dei grandiosi propositi di generosità, di fedeltà, di attività, ma subito poi ci ammosciamo appena ci accorgiamo che è necessaria un’azione lunga, paziente, di cui forse non vedremo i risultati.

È anche per questo, credo, che non sappiamo studiare. Lo studio è una cosa paziente, che non finisce mai, che prima di dare dei risultati richiede una applicazione lunga e costante che superi l’antipatia per una cosa astrusa che pure è necessario assimilare, che accetti il lavoro umile di prendere note e appunti, di cercare e di attendere i libri nelle biblioteche, di ritornare, quando è necessario, indietro, per chiarire un punto rimasto oscuro. C’è una soddisfazione, certo, nello studio. Ma prima di diventare, attraverso lo studio, l’uomo-guida, lo scienziato, l’«eroe», ci vuole troppo tempo e troppa pazienza. Per questo lo studio, anche fra gli studenti universitari, diventa un po’ la cenerentola delle varie attività.

E’ certo che in tutto questo influisce la vita certamente troppo intensa che noi viviamo, la necessità di occuparsi di molte cose, la richiesta che da ogni parte ci vien fatta d’energie giovani. E non voglio dire che queste cose non si debbano fare. Certamente il periodo in cui viviamo è un periodo singolare, in cui noi dobbiamo impegnarci in pieno. Ma bisogna che ci ricordiamo che questo impegno non è solo a fare cose grandi (e facciamole certo, se ci è possibile) ma è anche a fare quotidianamente quelle piccole cose che preparano la via del Signore. E ricordiamoci, nei momenti di entusiasmo quando facciamo dei propositi generosi, di promettere la costanza e la pazienza nel lavoro più monotono e nascosto.

Vittorio Bachelet, La fatica di tirare la carretta, Ricerca 20 Agosto 1947, in Gli ideali che non tramontano, Editrice AVE 1992